Operai che diventano padroni? Una risposta a “Repubblica”

imec_12_2013-rimaflowPubblichiamo questa risposta di Ri-Maflow ad un articolo uscito su Repubblica l’11 marzo scorso, in cui i tentativi di recupero delle fabbriche da parte dei lavoratori e delle lavoratrici venivano ricondotti ad una mera attrattiva imprenditoriale che si deve basare sull’accettazione passiva di un “indebitamento necessario”…

Dalla Putilov del 1917 alle fabbriche argentine in autogestione al workers buyout con gli operai che diventano manager: un unico percorso lineare? Un’evoluzione coraggiosa dello stesso progetto?

Senza voler demonizzare altre esperienze che tentano di resistere alla crisi, è bene fare chiarezza perché c’è del veleno nella coda…
Dalla nostra concreta realtà abbiamo imparato questo: si può sfuggire (o tentare di sfuggire) all’autosfruttamento – che avviene proprio dall’assunzione del cosiddetto rischio d’impresa – da parte di lavoratori e lavoratrici espulsi dal processo produttivo solo se si evita di impegnare tutte le proprie risorse (a cominciare dal tfr, dagli ammortizzatori anticipati e dai propri risparmi) e persino di indebitarsi per anni “per diventare imprenditori”. Cioè solo se ci si rifiuta di fare come suggerisce Repubblica e con lei i bocconiani di governo che vanno per la maggiore…

Prima ti spremono come un limone, poi si mettono in tasca i soldi e ti licenziano, poi invece di darti un reddito sociale ti tagliano anche gli ammortizzatori e ti dicono: arrangiati, se vuoi campare indebitati e fai l’imprenditore! No cari signori, noi non siamo in debito, siamo in credito!

RiMaflow (e almeno anche Officine Zero di Roma) è abusivamente inserita in questo conteggio di “imprese recuperate” fatto dal quotidiano di De Bendetti. Così ce ne sono non 39, ma migliaia e da decenni in Italia (e sono in gran parte affiliate alle grandi centrali cooperative, che inducono a costruirsi come impresa capitalistica, spesso con dinamiche di concorrenza al ribasso sul mercato del lavoro ed oggi non a caso esprimono il ministro del lavoro di un governo liberista).
Noi, sull’esempio delle iniziative storiche del mutuo soccorso e del controllo operaio e dell’attuale autogestione delle ERT argentine, ci rifacciamo al concetto di riappropriazione sociale dei mezzi di produzione. Ocupar, resistir, producir è tutt’altro che un’utopia fuori dalla storia, come racconta Repubblica. E’ proprio il fallimento delle politiche neoliberiste e la crisi sistemica che stiamo vivendo che ha rimesso all’ordine del giorno le alternative al modo di produzione dominante e anche alle scelte del tipo di produzione da sviluppare. La riconversione da automotive in direzione del riuso e riciclo che abbiamo intrapreso parla di questo.

Capiamo (e sosteniamo) chi lotta contro la chiusura della fabbrica e spera nell’arrivo di un nuovo padrone tentando di non peggiorare le proprie condizioni: è la stessa nostra storia, se ci si riesce, bene.
Capiamo anche chi riesce a rilevare l’azienda e a costituirsi in cooperativa con tanti sacrifici: non possiamo condannare chi ce la fa comunque a salvaguardare qualche posto di lavoro di fronte al dramma della miseria o della disperazione, tanto di cappello!
Ma se prima della chiusura si riesce a impostare la vertenza per riappropriarsi del capitale fisso (edifici e macchinari) e a far ripartire la produzione conservando le risorse proprie e soprattutto ad avviare un percorso di autogestione (sovranità dell’assemblea, uguale retribuzione,…) si intraprende una strada opposta a quella dell’autosfruttamento, alludendo esplicitamente a un’alternativa, non solo di produzione.
Se un padrone vuole delocalizzare e andarsene lo faccia pure, ma lasci qui fabbrica e macchinari in autogestione agli operai: è il primo risarcimento per averli sfruttati e buttati in mezzo a una strada, poi discutiamo!

RiMaflow non è un modello, è una sperimentazione. A oltre un anno ormai dall’inizio dell’occupazione l’attività si sta consolidando, ma non pensiamo di poter diventare un’isola felice. Ci definiamo “Fuorimercato” ma sappiamo di dover combattere contro le leggi del Mercato, e non lo possiamo fare da soli. Per questo abbiamo definito il nostro percorso “autogestione conflittuale”, perché ci sentiamo parte di un conflitto generale per costruire nuove regole economiche e sociali. Non otterremo da soli legislazioni di sostegno per ottenere l’assegnazione delle imprese ai lavoratori che le occupano. Semplicemente non aspettiamo che le leggi lo consentano: cominciamo a farlo per aprire la strada, per noi e per gli altri.
Ecco a Repubblica, che con alcuni suoi esponenti di sinistra guarda alla Grecia per le prossime elezioni europee, diciamo che una strada come quella indicata da questo servizio ci porta in braccio al jobs act di Matteo Renzi e dei padroni e non la condividiamo affatto. Se costoro non si mettono dalla parte della Vio.me autogestita di Salonicco ma giocano sull’ambiguità del lavoro fai da te senza diritti e garanzie noi non li seguiamo.

articolo tratto dal sito communianet.org

15 marzo: libertà e autodeterminazione per il popolo siriano

Il Comitato di Sostegno al Popolo Siriano sta organizzando le partenze in pullman da Milano per partecipare alla manifestazione nazionale del 15 Marzo. I posti disponibili sono 50. Il costo andata e ritorno è di 40€.

Per prenotare un posto scrivete a: comitatosiriamilano@gmail.com indicando NOME, COGNOME, INDIRIZZO MAIL e NUMERO DI TELEFONO entro e non oltre il 7 marzo 2014.

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Marzo 2011: cominciava una rivoluzione pacifica per la libertà contro la dittatura di Assad. Contro queste aspirazioni popolari il regime ha scatenato una guerra che sta mietendo migliaia di vittime.

Libertà e autodeterminazione per il popolo siriano!

● Via il regime criminale di Assad

● Contro le bande terroriste che colpiscono la popolazione e i rivoluzionari

● Fermiamo la spirale bellica, stop all’assedio delle città

● Libertà per i prigionieri d’opinione e padre Dall’Oglio

● Solidarietà con i profughi palestinesi in Siria vittime della repressione di Assad

● Protezione umanitaria e accoglienza per tutti i profughi siriani e per tutti gli immigrati

Con i bimbi, le donne, il popolo siriano che ci chiedono di rompere il silenzio.

SABATO 15 MARZO ore 15 Piazza della Repubblica

MANIFESTAZIONE NAZIONALE A ROMA

Per adesioni: 15marzoSiriaLibera@gmail.com

Prime adesioni

Comitato Romano di Solidarietà con il Popolo Siriano, Kamara Comitato di Solidarietà con il Popolo Siriano (Bologna), Rosa di Damasco, Curo Senza Confini, Comitati Solidali Antirazzisti, Amici della libertà, La Comune Umanista Socialista, Comitato di sostegno al popolo siriano (Milano), Associazione nazionale interetnica 3 Febbraio, Altenativa socialista libertaria (Rep. Domenicana), Sinistra Anticapitalista

Ri-Maflow, un anno fuori dal mercato

foto merrcatino rimaflowIn occasione della messa online del nuovo sito del Network Communia pubblichiamo l’articolo d’apertura di oggi che racconta l’anniversario di Ri-MAFLOW, fabbrica recuperata a Trezzano sul Naviglio. Ri-MAFLOW è stata proprio una delle esperienze che ha contribuito alla nascita della rete di Communia Network, nonché una delle prime ad aderire ad essa.

di Luca Fazio (da Alias)

La fabbrica di Trezzano sul Naviglio festeggia il primo anniversario della nuova era. Tra riciclo, co-working e autogestione.

Sem­bra facile, invece è un’impresa straor­di­na­ria. Biso­gna risa­lire il navi­glio grande in secca, non farsi fuor­viare dal ponte gobbo di Trez­zano, sci­vo­lare lungo via Boc­cac­cio senza depri­mersi per il pae­sag­gio di capan­noni già scheg­giati dalla crisi e poi entrare in una fab­brica favo­losa. E cre­derci, per sco­prire i segreti di una sto­ria che di solito fini­sce male. Quasi sem­pre malis­simo. Con il nuovo padrone stra­niero che rileva un’azienda affos­sata da una spe­cu­la­zione finan­zia­ria per spo­stare la pro­du­zione in Polo­nia, con 240 lavo­ra­tori ane­ste­tiz­zati da due anni di cassa inte­gra­zione e altri 80 ade­scati per far finta di lavo­rare e inta­scare la buona uscita men­tre la fab­brica viene spol­pata dei mac­chi­nari. Dopo tre anni di lotta, tavoli delle trat­ta­tive, arram­pi­cate sui tetti, scio­peri, picchetti, binari occu­pati e notti insonni. Tutto inu­tile. La Maflow, fab­brica di con­di­zio­na­tori per auto­mo­bili, nel 2007 era una mul­ti­na­zio­nale a capi­tale ita­liano con 23 sta­bi­li­menti nel mondo. Già sen­tita altre volte, vero? Ma que­sta è tutta un’altra storia.

Per­ché un giorno, un anno fa, alcuni lavo­ra­tori hanno deciso di gio­care alla sov­ver­sione. Sul serio. Si sono ribel­lati, la cosa più dif­fi­cile. Hanno preso gli spazi abban­do­nati e hanno con­qui­stato una spe­cie di città tutta da rein­ven­tare, 30 mila metri qua­drati di cui metà al coperto, nell’ordine di tre campi da cal­cio (di pro­prietà dell’Unicredit). L’hanno chia­mata Ri-Maflow, col suf­fisso magico. “Ri”, come riuso, rici­clo, riap­pro­priazione e, per­ché no, “Ri” come rivo­lu­zione. Pren­den­dosi sul serio ma con iro­nia, per­ché quando si cena tutti insieme per soli­da­riz­zare col por­ta­fo­glio c’è anche una bella (ri)passata di pomo­doro che sob­bolle in pen­tola. La Ri-Maflow ormai è più di una fab­brica, è un espe­ri­mento unico nel suo genere. Tutto da stu­diare, e ci sono già ricer­ca­tori uni­ver­si­tari che si aggi­rano nei capan­noni tra­sfor­mati per capire fino a che punto si può arri­vare quando si rac­col­gono le ener­gie per sov­ver­tire le regole auree del capi­ta­li­smo. Ma il sogno di imma­gi­nare una unità pro­dut­tiva auto­ge­stita sul modello delle fab­bri­che recu­pe­rate argen­tine quasi non basta più, per­ché l’idea di riap­pro­priarsi del lavoro per creare red­dito è stata quasi tra­volta dal biso­gno fisio­lo­gico di ricreare una nuova socia­lità. Non si vive di sola fatica. Però sono ope­rai e hanno il mito della pro­du­zione, per loro la vera sfida è avviare una atti­vità di pro­du­zione. Ci sono vicini, vici­nis­simi. Riti­rano oggetti tec­no­lo­gici arri­vati alla fine della loro inna­tu­rale vita e li ripa­rano, li smon­tano, li ri-utilizzano e li ri-vendono, è l’ecologia che da teo­ria si fa sostanza, l’università dell’aggiustaggio dove non si fanno chiac­chiere acca­de­mi­che. Fri­go­ri­feri, lava­sto­vi­glie, lava­trici, com­pu­ter, mixer, radio, aggeggi vari recu­pe­rati a chi­lo­me­tro zero.

Ma qui, den­tro la Ri-Maflow, per chi ci crede, c’è dell’altro. Manca solo Willy Wonka, il mago della fab­brica di cioc­co­lato, per farsi gui­dare nel gigan­te­sco baule di idee rea­liz­zate o che stanno per ger­mo­gliare. Pro­getti ambiziosi che ancora non si pos­sono rive­lare, cian­fru­sa­glie, un’altra Expo, una festic­ciola di car­ne­vale. C’è spazio per tutti, se gli ope­rai che si sono imbar­cati in que­sta avven­tura — una ven­tina sono soci lavo­ra­tori — avranno la forza di tirare avanti. C’è qual­cuno dispo­sto ad aiu­tarli, e ad aiu­tarsi? Per­ché un’idea ne chiama un’altra. Biso­gna sognare, ma anche restare con i piedi per terra, e per quello c’è la riu­nione ope­ra­tiva del martedì. Senza capi, né por­ta­voce. Ci sono solo respon­sa­bili dei vari pro­getti. Tanti, forse troppi (i pro­getti). Prove tec­ni­che di armo­nia per quasi disoc­cu­pati, il bene più pre­zioso e dif­fi­cile da pre­ser­vare in con­di­zioni dif­ficili come que­ste: per ora chi ci sta inta­sca una paga — se così si può chia­mare — di circa 300 euro al mese. Volon­ta­riato. Il risul­tato è la con­fu­sione più straor­di­na­ria che si sia mai vista in un luogo metal­mec­ca­nico dove si pro­du­ce­vano tubi di gomma per rin­fre­scare l’abitacolo di migliaia di Bmw. Auto­mo­bile, roba vec­chia.
Scul­ture di legno piaz­zate nell’atrio, solo un diver­sivo da art-studio per­ché due fale­gnami ave­vano biso­gno di un nuovo spa­zio; a Milano, dove una cosa così se la sognano, lo chia­me­reb­bero co-working, qui invece sem­bra la rivin­cita della sur­realtà, con foto­grammi rubati a un film di Taran­tino: lag­giù c’è la stanza spo­glia occu­pata da due tizi cac­ciati da chissà dove che si occu­pano di recu­pero cre­diti (con le buone maniere, viene da pen­sare). Di fianco gio­chi per bam­bini e maschere di car­ne­vale, spa­zio per il baratto, poi il bar Abba in memo­ria di Abdul Gui­bre, il ragazzo ita­liano ori­gi­na­rio del Bur­kina Faso ucciso a spran­gate sei anni fa a Milano. Una sala prove inso­no­riz­zata e anche una web tv gestita da due sene­ga­lesi, ope­rai agi­ta­tori di un sin­da­cato di base. Altri due neri alla Ri-Maflow ci abi­tano, al piano di sopra, ci abi­ta­vano anche prima che gli ope­rai si met­tes­sero in testa di ripren­dersi il desi­de­rio del lavoro e poi sono rima­sti inca­strati al ver­tice, nel comi­tato di gestione. Ogni capannone apre uno sce­na­rio diverso, l’incanto della camera dei gio­chi è nell’enorme mer­ca­tino dell’usato che si nasconde sotto le coperte in attesa di ogni sabato e dome­nica, sono tre­mila metri qua­drati al coperto a dispo­si­zione di cento espo­si­tori. Il mer­cato libero, una cala­mita per appas­sio­nati e feti­ci­sti dell’artigianato e del col­lezio­ni­smo. Altro capan­none, altra sto­ria. È ancora un mer­cato — il Fuo­ri­Mer­cato — il venerdì e il sabato mat­tina, trionfo del bio­lo­gico, la nuova casa di un Gruppo di acqui­sto soli­dale in com­butta con i pro­dut­tori del parco agri­colo sud Milano (le ciba­rie si acqui­stano anche su www.fuorimercato.com).
Una gab­bia vuota ogni quin­dici giorni si riem­pie di quin­tali di arance pro­ve­nienti da Rosarno, Cala­bria, dove quat­tro anni fa cen­ti­naia di lavo­ra­tori stra­nieri accam­pati come bestie si ribel­la­rono dopo essere stati “spa­rati” dalla mala­vita locale; sono gli stessi agrumi in ven­dita senza scan­dalo sugli scaf­fali dei super­mercati della grande distri­bu­zione. Forse è que­sto il succo dell’avventura Ri-Maflow, il ribal­ta­mento di una pro­spet­tiva che nella realtà non lascia scampo: qui, in uno spa­zio ricon­qui­stato a un padrone spe­cu­la­tore, e di proprietà di una banca, si ven­dono arance di Rosarno rac­colte dai brac­cianti, ma in regola e pagati con un giu­sto sala­rio. Spre­mere gli agrumi, non gli esseri umani.

Tutte que­ste atti­vità, i mer­ca­tini, le feste, i con­certi, la sala prove, il tea­tro, la linea di pro­du­zione per il recu­pero di elet­tro­do­me­stici, il bar, si auto­fi­nan­ziano for­mando una sorta di hol­ding soli­dale che sta offrendo un’altra pos­si­bi­lità, anche di red­dito, a cen­ti­naia di per­sone che usu­frui­scono degli spazi (soci fon­da­tori a parte). Serve altro?
Gli ope­rai, però, non ce l’hanno ancora fatta. La soste­ni­bi­lità eco­no­mica del pro­getto, e delle vite sovrac­ca­ri­che di impe­gni per 300 euro al mese, è sem­pre in forse. Non è facile con­ci­liare il tempo dedi­cato all’autogestione con l’urgenza di rime­diare il denaro per vivere. Molti lavo­ra­tori rice­vono bri­ciole di ammor­tiz­za­tori sociali, ma la cassa inte­gra­zione è agli sgoc­cioli. Dopo un anno la corsa a osta­coli è appena comin­ciata e le moda­lità per ripro­get­tarsi in grande sono tutte da inven­tare. Biso­gna otte­nere le auto­riz­za­zioni, trat­tare con l’Asl, cogliere l’opportunità di bandi euro­pei o regio­nali, intralci buro­cra­tici neces­sari per soprav­vi­vere. E poi lot­tare per un’altra poli­tica del lavoro, pro­vare a fare della Ri-Maflow il modello vin­cente per le altre ver­tenze che fini­scono con il padrone che prende i soldi e scappa. Si potrebbe imma­gi­nare che i mac­chi­nari dell’azienda che licen­zia e delo­ca­lizza riman­gano ai lavo­ra­tori. Solo così sarebbe pos­si­bile spe­ri­men­tare l’autogestione pro­dut­tiva come nelle fab­bri­che argen­tine, per­ché agli ope­rai della Ri-Maflow sono rima­sti solo i capan­noni. Ci vor­rebbe una sorta di diritto di pre­la­zione per i lavo­ra­tori depre­dati del lavoro. Te ne vai? Sei obbli­gato a lasciare qui le mac­chine. Si potrebbe chie­dere un parere a Fede­rica Guidi, il mini­stro dello Svi­luppo eco­no­mico. Con calma, per non rovi­narsi la festa. Oggi è il primo com­pleanno della nuova impresa. Si festeg­gia con una gior­nata di bagordi, dalla mat­tina a mez­za­notte. Le ini­zia­tive sono tante. Per auto­ge­stirsi almeno la visione del pro­gramma chiun­que può visi­tare il sito rimaflow.it. Dopo tanta sostanza, un’incursione nel virtuale.

[Foto: Dino Fracchia, mercatino di Ri-Maflow]

articolo tratto dal sito communianet.org

8 marzo di autodeterminazione

bulgaria

Nello Stato Spagnolo una proposta di legge repressiva e machista minaccia seriamente le possibilità di autodeterminazione delle donne. Si tratta della legge Gallardon che, se approvata, impedirà il diritto all’aborto legale e assistito in quasi tutte le circostanze, tranne in caso di pericolo fisico o psichico estremo per la donna. Molte donne saranno costrette ad abortire clandestinamente: quelle che potranno permetterselo si recheranno in cliniche all’estero, le altre dovranno scegliere se accettare condizioni igienico-sanitarie spesso precarie, mettendo a rischio la propria vita, o portare avanti una gravidanza non desiderata e subirne la violenza.

In Italia lo scenario è paurosamente simile. Sempre più donne si vedono negata la possibilità di interrompere volontariamente la gravidanza, soprattutto a causa della presenza sempre maggiore dei medici obiettori (che è di circa l’80% per i ginecologi). Inoltre i tagli alla sanità hanno portato alla chiusura di numerosi consultori e centri per le malattie a trasmissione sessuale (MTS) e all’innalzamento del costo di diversi servizi sanitari.

Il messaggio sembra chiaro, le donne non possono autodeterminarsi e decidere sul proprio corpo, che è continuamente oggetto di violenza: nelle case (tra le botte e la costrizione nel ruolo di madre e moglie), nelle strade (occhiate, fischi, commenti) nei consultori (in Lombardia quasi unicamente gestiti da associazioni cattoliche antiabortiste), nelle questure (l’ultimo luogo dove vorresti andare dopo una violenza), sul lavoro…

Contemporaneamente i tagli al welfare a livello sanitario ed assistenziale scaricano ancora una volta sulle donne il peso del lavoro di cura, utilizzando la famiglia tradizionale e oppressiva come unico sostegno sociale. D’altra parte, il continuo attacco ai diritti sul lavoro, la flessibilizzazione dei contratti, le dimissioni in bianco, aumentati con la crisi economica, generano una sempre maggiore precarietà lavorativa ed esistenziale soprattutto per le donne. Tutto questo ci impedisce oggi di poter scegliere se, come e quando essere madri.

Vogliamo riprenderci i nostri corpi e i luoghi in cui viviamo!

Ci dicono che la notte è pericolosa, che non possiamo andare in giro da sol*. Ci dicono come vestirci, per non attirare sguardi, fischi, palpatine e stupri. Ci dicono che se ci travestiamo e baciamo in strada siamo esibizionist*. Ci dicono che se siamo vittime di violenza ce la siamo cercata.

E allora, la notte dell’8 marzo riprendiamoci le strade, tutt* insieme! Travestit*, svestit*, performat*, senza paura di essere chiamate zoccole, cagne, puttane, perché la parola puttana deve smettere di essere un insulto.

H 17.00 presidio davanti all’ASL n.1 in corso Italia 19
H 19.00 unisciti alla marcia!