Che genere di EXPO?

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 di Mauro Muscio e L. I. Bergkamp

Negli ultimi quindici anni gli studi di genere e queer hanno affrontato in diverse misure il fenomeno del pinkwashing. Letteralmente l’espressione significa “sciacquare di rosa“ certo, ma di quali panni stiamo parlando? Il progetto della “Gay Street” verso Expo 2015 chiarisce perfettamente il significato del termine.

Assessori comunali e addetti ai lavori hanno presentato all’inizio di Aprile il progetto di riqualificazione di via Sammartini di Milano – dove sono presenti alcuni locali gay – per ripulirla dalla microcriminalità e creare una Gay Street pronta ad accoglierei i turisti omosessuali che visiteranno Milano in vista di Expo 2015. I responsabili del progetto, tra cui la consigliera Iardino del PD, hanno dichiarato che “l’indotto italiano annuo del turismo gay ammonta a 2,7milioni di euro. Un bel business“. Si risciacqua di rosa il commercio, i soldi, il capitale. Tipico delle socialdemocrazie del nord Europa, ma non solo, il pinkwashing generalmente si presenta come un fenomeno commerciale che crea nuovi bisogni soprattutto per gli omosessuali uomini e propone, o meglio, vende, le soluzioni. Un fenomeno, gestito da privati e da governi nazionali, che prevede la salvaguardia delle soggettività lgbt attraverso l’unico dio che mette d’accordo tutti: il denaro.

Il progetto milanese presenta delle novità rispetto ad altre città gay friendly quali Amsterdam, Tel Aviv o Oslo. È un progetto studiato a tavolino tra comune e privati, che ha escluso , fino ad ora, la collaborazione con le associazioni lgbt di Milano; si inserisce in quel disegno comunale più grande di “pulizia” della città, attraverso quello che chiamano riqualificazione, e che ha come alibi quella di dare spazio ai soggetti lgbt e al loro turismo. Non c’è la volontà di risolvere i problemi che stanno a monte del degrado di alcune zone della città, ma piuttosto quella di spostare il degrado fuori dal centro, fuori dalla zona turistica, e farlo vestendo gli abiti dei custodi dei diritti della popolazione lgbt.

Storicamente le GayStreet – intese non solo come vie ma anche come quartieri- sono state “battezzate” in questo modo per ufficializzare una realtà pre-esistente, un dato di fatto. I lavori per Expo2015 però hanno stravolto questo schema. Si è scelto un quartiere dove sono presenti i più vecchi locali gay della città, che di certo però nessuno/a percepisce come quartiere omosessuale e si è deciso che nel giro di un anno lo diventerà.

In questa prospettiva di conservazione e corroborazione dello stato di cose dominante, capitalista e patriarcale, le donne non potevano rimanere escluse ed infatti un altro dei progetti principali è proprio Women for Expo.

Women for Expo è una rete mondiale di donne per “nutrire il Pianeta”, nata in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori. Il suo scopo è formare una rete di donne per esprimersi sul cibo e nonostante tentativi più o meno riusciti di mimetizzare il pensiero differenzialista alla base, si rivela semplicemente per quello che è: l’ennesimo tentativo di relegare la donna nel suo ruolo sociale di moglie e madre, ventre fertile e Madre Terra, che coltiva e cucina, che è “natura”.

Un’immagine di donna che è culturale e che non ci appartiene, che vuole normalizzare una condizione sociale di oppressione, naturalizzando qualcosa che naturale non è affatto. O peggio cercando nuovamente di “sciacquare via” la realtà di Milano e soprattutto dell’Esposizione: a pagare di più, ancora una volta, saranno le donne. Con Expo infatti sarà accelerata la flessibilità lavorativa che sempre ha caratterizzato il settore femminile, con una forte incidenza negativa sulle possibilità di autodeterminazione delle donne stesse.

E’ evidente quindi che Milano, la Milano di Expo, non è una città aperta alle necessità di donne e lgbt né lo vuole essere. Nella metropoli-vetrina la dicotomia di genere continua ad affermarsi ostinatamente, corroborando un sistema che segrega al ruolo di cura e assistenza, sentito come ancora più necessario dal momento che i tagli sul fronte pubblico hanno portato la sanità al limite dal crollo, i consultori vengono chiusi e privati di fondi, l’assistenza parentale azzerata.

Due progetti, insomma, che raccontano molto di questa Esposizione Universale. Una cosa però è certa: Non sarà tanto la presa di posizione di singole donne “immagine” o di associazioni lgbt a decidere, ma le donne e la popolazione lgbt milanese stessa giocheranno un ruolo decisivo. Possiamo e dobbiamo decidere se indossare o meno quei panni rosa che hanno lavato per noi, se legittimare la scelta che altri – assessori, imprenditori, uomini, eterosessuali – hanno fatto per noi.

articolo tratto dal sito communianet.org