Beni Comuni contro il vero disuso

16 settembre 2020

Disuso: Stato di abbandono causato da un cambiamento generale di indirizzo.

Ogni persona ha nella mente e nel cuore una sua città, un suo modo di vivere la metropoli milanese. Per molte/i è purtroppo anche un modo di non viverla, di non poterla vivere fino in fondo, perché mancano le risorse per poterlo fare.

Risorse materiali – lo sappiamo benissimo – ma spesso anche risorse culturali e sociali. Perché è la stessa struttura urbana a differenziare, a dividere, a costruire cittadine e cittadini costretti a vivere zone della città abbandonate, o comunque molto poco considerate dalle grandi istituzioni culturali e sociali.

Potremmo definirle zone in disuso, se volessimo utilizzare la lingua delle burocrazia….

In moltissime di queste zone, dentro la cerchia dei confini cittadini come nell’hinterland metropolitano, sono nate importanti esperienze culturali, sociali, politiche, solidali – esperienze autogestite, costruite sull’autofinanziamento, sulla gratuità o comunque sul rifiuto della logica di mercato per cui può sopravvivere solo chi ha “i mezzi” per farlo.

Non sono necessariamente spazi recuperati o “occupati” (noi preferiamo chiamarli “liberati”, ovvero liberati dall’abbandono): a volte sono stati presi in affitto, in concessione, in convenzione – scommettendo sulla possibilità di ripagarne i costi (e magari anche il lavoro di qualcuna/o) attraverso la partecipazione e la socializzazione di iniziative popolari.

Dopo i mesi della chiusura e dell’emergenza ci ritroviamo a fare i conti con il rischio concreto della perdita di moltissimi di questi spazi. Pensiamo a realtà come La Scighera, al circolo Ohibò, alla Casa delle Donne di Milano. E pensiamo a spazi recuperati come Lambretta, Cascina Torchiera, Ri-Make Bene Comune, alcuni persino recentemente sgomberati e a cui va tutta la nostra solidarietà, come nel caso del Lock (sgomberato nonostante fosse base, tra le altre cose, delle brigate di solidarietà).

Non si tratta solamente di fare i conti con i costi economici e la mancanza di entrate durante i mesi di “inattività”, ma anche con il ritorno della città che non si ferma, con scelte amministrative che sembrano contradditorie. Contradditorie rispetto alle stesse possibilità regolamentari e giuridiche che pure privilegiano chi può permettersi investimenti finanziari.

Pensiamo ad esempio alla possibilità di riconoscere come “Bene comune” questi spazi, riconoscere il loro valore sociale, la loro “redditività civica”. Non dovrebbe essere semplicemente una scelta amministrativa, quanto il riconoscimento della necessità di questi spazi sul territorio. Necessità non per chi li “gestisce” ma per le migliaia di persone che partecipano, abitano, usufruiscono di servizi e sostegno da questi spazi.

Abbiamo accennato all’“inattività” causata dal lockdown: molte attività sociali e culturali di questi spazi – accessibili a ogni forma di pubblico, sempre vissute collettivamente – in quei mesi si sono dovute fermare.

Ciononostante, tutti questi spazi sono stati il centro di vecchie e nuove attività di solidarietà, mutuo soccorso, aiuto alle persone più fragili. Senza aspettarsi nulla, perché è stata una scelta naturale, conseguente a valori e principi su cui si fondano queste esperienze.

Altro che inattivi. Mai stati così necessari, efficaci, epicentri di relazioni che durano ancora dopo l’emergenza.

Oggi questi spazi vanno difesi, non perché pensiamo vada “premiata la generosità” o perché la solidarietà chiede qualcosa in cambio. Vanno difesi perché sono una parte fondamentale della metropoli, sono il corpo, l’anima e l’intelligenza di una città che non può più permettersi di vivere su logiche di profitto e meccanismi di mercato. E questo non solo per ragioni sociali o economiche ma prima di tutto ecologiche.

Sono spazi che non chiedono un “aiuto pubblico” quanto la possibilità di poter continuare ad essere bene pubblico, luogo di relazioni e di ascolto, di mutuo aiuto e cura reciproca, di partecipazione dal basso e aperta a tutta la cittadinanza.

Ri-Make in questi due anni nei quali ha recuperato uno spazio abbandonato, in disuso – perché economicamente il liceo Omero non era più conveniente – ha cercato di lavorare sulla costruzione materiale di bene comune. Lo ha fatto concretamente, con le sue attività solidali, culturali, mutualistiche; e lo ha fatto con la proposta e la disponibilità al confronto, alla vertenza.

Come dicevano le/gli zapatiste/i, “Todo para tod@s, nada para nosotr@s” – Tutto per tutte/i, niente per noi. Non ci interessa il riconoscimento di un collettivo, di un gruppo di attiviste/i. Ci interessa poter continuare ad accogliere, ad aprire lo spazio alla partecipazione, a coinvolgere soprattutto generazioni che vogliano esprimersi, vivere i loro sogni, condividere i propri desideri, conoscere i propri diritti e costruirne di nuovi.

La ricchezza politica, culturale e sociale di questi spazi non deve essere solo riconosciuta, ma protetta, emancipata e diffusa. Consapevoli che da un punto di vista ecologico tali pratiche di comunità non sono solo necessarie, ma saranno sempre più le uniche possibili per “fare città”.

Per noi questo è proprio quello che chiedono anche Scighera, Lambretta, Torchiera, Casa delle Donne e i molti altri spazi e progetti alternativi presenti in questa città.

Ogni spazio con la propria esperienza e le proprie caratteristiche ma con qualcosa in comune: essere beni comuni che la metropoli non può perdere.

Questa la nostra sfida, la nostra lotta, la nostra proposta.