Oltre la condanna, la beffa

Ancora una sentenza del tribunale di Torino contro i No Tav.

Collettivo Ri-make

A distanza di quasi 5 anni dai fatti imputati, due attivisti milanesi, del collettivo Ri-Make e della rete FuoriMercato, insieme ad un attivista di Torino, sono stati condannati in primo grado, il 10 febbraio 2017, per resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e lesioni personali. Pene tra i 9 e i 12 mesi di reclusione per tutti, che tuttavia non diverranno effettive per la concessione dei cosiddetti benefici di legge, e un sanzione di circa 9000 euro tra risarcimento danni e spese processuali.

In attesa delle motivazioni della sentenza, questo è un esito che lascia un fortissimo amaro in bocca, ma che allo stesso tempo, grazie all’accurato lavoro della difesa, smentisce l’impianto accusatorio del pubblico ministero, facendo cadere l’imputazione iniziale che mirava ad una condanna tra i 3 e i 15 anni di carcere.

Tra pochi giorni saranno 5 anni esatti da quel 25 febbraio 2012, che ancora oggi ci resta impresso nella memoria come una giornata di grande forza del movimento No Tav e allo stesso tempo ci lascia una sensazione di ingiustizia di fronte alla repressione subita.

Quel giorno sfilarono in corteo per la Valle di Susa circa 70 000 persone, arrivate da tutta Italia per solidarizzare con la lotta No Tav e con i numerosi attivisti sottoposti al carcere preventivo.

Da Milano diverse centinaia di persone si erano organizzate per partecipare alla manifestazione, negoziando con Trenitalia un prezzo collettivo per il viaggio di andata e ritorno.

Ma quella sera nessun telegiornale raccontò dei numeri imponenti della giornata di protesta, per concentrarsi, invece, a reti unificate sugli « scontri tra manifesanti e polizia » che si verificarono presso la stazione di Torino Porta Nuova. Ma non ci fu nessuno scontro, bensì un’azione unilaterale, sconsiderata e violenta da parte della polizia, alla fine di un’intera giornata di protesta pacifica.

Sul viaggio di ritorno dalla manifestazione, infatti, alla stazione di Torino Porta Nuova il gruppo milanese si trova sbarrato l’accesso al treno per Milano, da parte delle forze dell’ordine che, stracciando gli accordi presi all’andata tra Trenitalia e manifestanti, impongono a questi ultimi un ulteriore pagamento per poter accedere ai vagoni del treno.

Diverse telecamere e telefoni cellulari hanno ripreso la violenza di quel che si è verificato, tutto a d’un tratto, mentre era in corso la trattativa tra i portavoce del gruppo No Tav e la polizia :

(https://www.youtube.com/watch?v=jaqVr1TRY30)

Il responsabile dei reparti celere dà l’ordine di caricare i manifestanti, che si trovano accalcati nell’atrio interno della stazione. Ai primi colpi di manganello, sulle teste di manifestanti a braccia alzate, si diffonde l’agitazione, le urla e la confusione.

Mentre arriva l’ambulanza a medicare i primi feriti, Trenitalia riceve da parte dei manifestanti la somma di denaro aggiuntiva pretesa, e la polizia apre un varco per far accedere i manifestanti al treno di ritorno. Le persone iniziano a raggiungere i vagoni, quando un secondo reparto celere fa ingresso nell’atrio, il varco viene chiuso e una seconda carica a freddo parte verso i manifestanti che stanno defluendo lungo la banchina del treno. Un secondo gruppo di persone rimane bloccato ancora una volta sul piazzale e dovrà attendere che la polizia si allontani definitivamente prima di riuscire a raggiungere il treno.

Se il Pubblico Ministero e le testimonianze dell’accusa hanno provato a sostenere che le cariche fossero partite in seguito al lancio di pietre e altri oggetti da parte dei manifestanti, la ricostruzione video, le testimonianze di chi ha subito quelle cariche e le dichiarazioni spontanee degli imputati sono riusciti a dimostrare l’esatto opposto: è in seguito alle cariche che si sono verificati alcuni lanci di pietre.

Inoltre, mentre i manifestanti scappano cercando riparo sui vagoni, un lacrimogeno viene lanciato all’interno del treno, e i manganelli colpiscono indistintamente chiunque, manifestanti e pendolari che si ritrovano coinvolti senza comprendere cosa accada, e scendono dal treno a causa dell’aria irrespirabile. Le teste e i volti insanguinati tra i manifestanti sono diversi, come testimoniano i video e referti medici.

Lo Stato, a differenza delle persone fisiche, ha il diritto di fare uso della forza e della violenza per tutelare l’ordine pubblico. Ma come possono le persone fisiche difendersi, se lo stato abusa di quella forza ?

I manifestanti e i pendolari che hanno subito la violenza dello Stato quel 25 febbraio 2012, hanno chiesto giustizia, ma nell’impossibilità di dare un volto e un nome ai diretti responsabili, hanno visto la loro denuncia contro ignoti concludersi in un’archiviazione.

Chi invece ha cercato di difendersi da quell’abuso, oggi viene condannato per resistenza a pubblico ufficiale: oltre al danno la beffa. E oltre alla beffa, 700 euro di risarcimento per uno dei poliziotti che ha dichiarato di aver ricevuto un calcio in faccia da parte di un manifestante. Eppure, nessuno degli imputati ha compiuto tale gesto, né le telecamere ne danno testimonianza.

Oltre al danno, oltre alla beffa, oltre ai 700 euro di risarcimento al poliziotto, circa 8000 euro da versare all’avvocato che ha difeso quest’ultimo, in termini di rimborso delle spese processuali.

Nulla conta il fatto che il pagamento di tale cifra sia ingiunto a due studenti senza reddito e ad un disoccupato.

Nulla conta che tutti e tre gli imputati abbiano riportato di fronte al giudice la testimonianza della paura che ha determinato i gesti che sono loro imputati, dell’ansia dettata dal sentirsi in pericolo, dal vedere in pericolo i propri compagni, familiari e amici, della rabbia nel dover assistere al sangue sui volti delle persone di fronte a loro.

Il lavoro fatto dagli avvocati della difesa, insieme alle vivide testimonianze riportate da chi quel giorno ha visto e subito, e la collaborazione tecnica di montaggio video, sono state comunque fondamentali perché hanno permesso una ricostruzione accurata della dinamica, una contestualizzazione dei fatti, tanto da riuscire a derubricare i reati contestati.

Se l’accusa inizialmente imputava tutti e tre i manifestanti per resistenza aggravata, cioè di aver compiuto e pianificato il reato come gruppo, la sentenza nega tali aggravanti, e assolve uno degli imputati dal reato di lesioni personali per non aver commesso il fatto.

Allo stesso tempo però la delusione è forte nel leggere tra le righe della sentenza che sostanzialmente le cariche effettuate dalla polizia siano state considerate legittime e di conseguenza illegittimo l’aver cercato di difendersi dalla violenza di quelle.

E non solo.

La sentenza attribuisce agli imputati la responsabilità del ritardo con cui partì il treno quella sera, ritardo che è stato palesemente creato a monte con la decisione della polizia di bloccare ripetutamente l’accesso al treno e che si è ulteriormente dilatato a causa delle stesse cariche.

Questa sentenza è per noi quindi una profonda ingiustizia, e purtroppo solo l’ultima di una lunga serie per il movimento No Tav e chi lo sostiene. Inoltre la condanna colpisce penalmente ed economicamente chi sente e non dimentica di aver subito in quell’occasione e che oggi si trova a dover pagare caro, per aver manifestato liberamente, per essere stato terrorizzato dall’operato delle forze dell’ordine, e per aver cercato in quei momenti di angoscia di tutelare se stesso e i propri cari.

Sicuramente non accettiamo questa sentenza, faremo appello e torneremo a testimoniare le ingiustizie subite, e la grossa difficoltà economica oltre che penale, in cui ci scaraventa questa sentenza. Perché se 8000 euro per qualcuno sono un cifra irrisoria – per esempio per i costruttori che si arricchiscono con opere inutili e dannose come il Tav – per gli imputati sono una cifra irraggiungibile individualmente, anche con il lavoro di anni e anni.

Ci sembra dunque fondamentale costruire insieme quante più possibili risposte di solidarietà materiale, affinché le pene economiche previste non cadano sui singoli, e perché collettivamente si risponda a quest’ingiustizia.

In quella giornata del 25 febbraio circolò per la prima volta un canto che non ha più abbandonato le mobilitazioni No Tav, e che intona il grido “Si parte, si torna, insieme!”.

Crediamo che continui a essere il tempo per cantarlo e per non lasciare indietro nessuno.

Storie che solo noi sappiamo pronunciare.

ex_cuemSulla sentenza per lo sgombero della libreria autogestita ex-Cuem.

Pochi giorni fa sono stati condannati in primo grado i 7 compagni/e imputati per lo sgombero della libreria ExCuem in Università Statale di Milano.
Le accuse sono di resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento, con condanne dai 6 agli 8 mesi e senza sospensione della pena per due compagni.
Rifiutiamo totalmente la costruzione giudiziaria e repressiva che di quei giorni viene fatta ed è stata fatta fin dai primi momenti di questo assurdo processo.
Lo rifiutiamo essendoci stati in quelle giornate, e avendo ancora chiare in mente e sulla pelle le violentissime cariche, a freddo e ingiustificate, attuate dentro il chiostro dell’Università da più di cento uomini delle Forze dell’Ordine, verso una quarantina di studenti e solidali massacrati a manganellate fino all’uscita dell’ateneo, il tutto per gravissima responsabilità del rettore Gianluca Vago. Ricordiamo ancora le braccia rotte, le teste aperte e non accettiamo che per l’ennesima volta l’abuso dalle parte delle forze dell’ordine sia rigirato contro chi ha subito questa violenza.
Ma rifiutiamo la narrazione repressiva di questa sentenza e di tutto il processo soprattutto perché cerca di cancellare una storia alla quale abbiamo dato vita e partecipato fin dal primo momento, quello della libreria autogestita Ex-Cuem.

Una storia fatta di tante storie e tutte capaci di lasciare segni importanti in questa Università: storie di riappropriazione in una struttura del sapere totalmente mercificata e devastata dalle riforme degli ultimi 15 anni, capace solo di espropriare dei suoi diritti chi ci studia e/o lavora; storie di autogestione e mutuo soccorso costruiti giorno dopo giorno da studentesse e studenti (e non) che sfidavano l’espulsione economica dal ciclo formativo, rispondendo ai costi impossibili con strumenti concreti di autorganizzazione dal basso, con fotocopie a offerta libera e scambi di libri e dispense; storie di cultura e controcultura critica, di discussioni, di presentazioni di libri, di concerti, di poesie, di teatro, tutto a rompere la luccicante trasmissione ufficiale di un sapere “morto”, al servizio esplicito del mercato del lavoro flessibile, funzionale solo al discplinamento alla precarietà e all’asservimento all’autorità; storie di conflitti attuati e raccontati, incontrando svariate esperienze di lotta, di resistenza, di autogestione, tutte parte di un racconto più ampio in cui il percorso della libreria si inseriva.

Una storia fatte di tante storie alla ricerca di alternative concrete, efficaci e possibili, contro e dentro lo smantellamento del proprio presente e del proprio futuro, che difendiamo, come abbiamo sempre fatto e continueremo a farlo.
Per questo non permettiamo che venga giudicata e distorta giudiziariamente questa storia, da chi non può sopportare che qualcuno o qualcosa abbia aperto e continui ad aprire orizzonti diversi che mettano in discussione i loro mondi ingabbiati.
Resistere oggi alla devastazione e al saccheggio della propria Università, del proprio territorio, della propria città non è un fatto giudicabile in un processo, sono pratiche e percorsi raccontabili solo da chi li costruisce e li vive, da tutt* quell* a cui manca l’aria e che provano a respirare assieme.

Dopo lo sgombero della libreria e di quelle violentissime cariche, alcun* di noi espressero in un reading teatrale tratto da “L’amore degli insorti” di Stefano Tassinari il senso e le emozioni di quelle giornate, di come bruciavano e cosa ci lasciavano. Vogliamo rinfrescare quei momenti e raccontare questa storia fatte di storie così:

“Una strada aperta ai sentimenti…
è da qui, dicevi, che si deve ripartire
per dare ancora un senso
ai giorni che verranno
a rammentarci di esser stati altro
da un semplice raduno di ricordi
e pugni in tasca, e mano nella mano
e voci spente all’arrivo della notte
come se i passaggi del tempo
c’invitassero a tacere all’improvviso
e il nostro mondo si fosse messo in posa
per sembrare sempre fermo
davanti al sogno di vederlo in movimento
senza uno strascico di pesi alla memoria
che da sola si trasforma in nostalgia
e nulla più.
(…)
E mi rimane, infine, la certezza
che si possa sbagliare dalla parte giusta
schierati a protezione di un’intesa
tra l’utopia di chi insegue gli orizzonti
e gli orizzonti stessi che si spostano per noi
come se fossero le guide di un cammino
in fondo al quale scavalcare il mare
per ritrovare lì l’amore degli insorti
che solo noi sappiamo pronunciare”