Sciopero sociale, buona la prima.

di Thomas Müntzer

Lo sciopero sociale è riuscito. Certo, non ha fermato il paese, non c’è stato il blocco della produzione sociale. Ma non era questo l’obiettivo. La giornata è riuscita perché, dopo tanto tempo, s’è riaperto uno spazio sociale, collettivo e conflittuale. Non era scontato. Sappiamo bene che analoghe iniziative, nei mesi precedenti, si sono depotenziate da sole per mancanza di slancio ricompositivo e di sperimentazione. I cortei partecipati del 14 novembre, in particolare quello numeroso di Roma ma anche di Milano, Bari, Napoli e così via, hanno dimostrato due cose fondamentali.
La prima è che una parte della nuova generazione non crede al messaggio truffaldino di Renzi. Non crede alla “narrazione” della rottamazione e del rinnovamento del paese tramite la precarizzazione dei rapporti di lavoro e di vita in generale. Non crede alla “buona scuola”, alle grandi opere per “sbloccare l’Italia”, alle tirate contro i lavoratori. Questo aspetto è ancora più evidente se allo sciopero sociale si somma la giornata organizzata dalla Fiom. Il grande corteo di Milano e lo sciopero dei metalmeccanici del nord hanno rappresentato, prima di tutto, la testimonianza che una larga fetta del paese, del mondo che lavora, non si riconosce nel messaggio renziano. In tempi di mobilitazione fiacca e di crescita delle tensioni populiste e razziste, il messaggio aiuta a ristabilire i termini del conflitto e mette in mostra un potenziale sociale che, in larga parte, è sotto il giogo dell’apparato sindacale ma che mostra una volontà di resistere ed andare oltre le dinamiche puramente sindacali. Sul piano dello sciopero sociale quello che si afferma è il dato generazionale. Precari, studenti, disoccupati, lavoratori deboli, intermittenti e quant’altro, sia pure in forma in larga parte simbolica, per il momento, si ritraggono dallo “storytelling manageriale” renziano restando insensibili alle sirene della (finta) rottamazione.

Il secondo aspetto è che, sia pure embrionalmente, si è aperto uno spazio sociale e politico nuovo. Spazio, al tempo stesso, ibrido e unitario e quindi di tutti, attraversabile liberamente, adottabile da soggetti diversi, comune a pratiche diverse tra loro. A differenza di quanto avvenuto negli ultimi anni, stavolta una iniziativa di movimento non è sequestrabile da questo o quel soggetto politico – per quanto questa tentazione possa ancora affiorare – e diventa uno strumento di iniziativa che può ambire a parlare al di fuori delle aree degli attivisti. Lo sciopero sociale colpisce l’immaginario perché può rappresentare tutti e tutte, può dare voce a chi non ha voce, può essere adottato. E in questo consiste la sua potenzialità da sfruttare. Farne un evento virale non solo sul piano virtuale ma su quello concreto del conflitto. Spazio di contenuti alternativi in cui riconoscersi e su cui, se alimentato l’innovativo processo narrativo, costruire un immaginario conflittuale di lungo periodo, non più legato alle sorti di un singolo evento di lotta ma basato su esigenze narrative e rivendicative concrete, legate al vissuto dei soggetti precari e sfruttati (da questo punto di vista, emblematico il ruolo della campagna contro il lavoro gratuito e i “tirocini formativi” che ha favorito adesione e riconoscimento nello sciopero).

Il prossimo passaggio, oltre le date da stabilire e le pratiche da definire, sarà quello di fare in modo che “sciopero sociale” diventi l’identità di una lotta in un centro commerciale, presso un centro delle catene della ristorazione, nei luoghi della produzione delle merci e del sapere, dentro tutti quegli spazi in cui si sfrutta il lavoro vivo. Dare a collettivi di lavoratori e lavoratrici, di precari, studenti, migranti etc, un riferimento a cui agganciarsi, da rendere concreto con l’istituzione di veri e propri “sportelli dello sciopero sociale” nei territori, laboratori di autorganizzazione ma anche di supporto e informazione per chi non ha voce sul posto di lavoro, e vuole iniziare a lottare. L’orizzonte che va da oggi all’inaugurazione di Expo è un giusto arco di tempo di medio periodo in cui sperimentare tali laboratori, per capire anche come ampliare e praticare un reale blocco della produzione.

Il 14N è stata un’anteprima, una prova e una sperimentazione. Il metodo è quello giusto. E’ solo l’inizio, occorre continuare ad andare avanti provando ad a rimettere in gioco forze e senso, senza fughe in avanti, senza inutili avanguardismi perché la partita in atto non è l’apparizione di una sera in tv. Non è più tempo di pressioni e scavalcamenti del sistema di rappresentanza politica e sindacale. C’è la necessità di allargare e consolidare uno spazio sociale che si è aperto, che faccia tornare di attualità il conflitto e la possibilità di una ipotesi alternativa. Nella tanto agognata ricomposizione delle lotte si sovrappongono tempi e forme del conflitto diversi, non serve ricondurli ad astratta unità. In fondo, oggi, ricomporre i conflitti sociali significa alimentare i percorsi di politicizzazione dei soggetti che lottando mettono in discussione i rapporti e le relazioni dominanti.

articolo tratto dal sito communianet.org